Il bello della diretta

Ha iniziato la Televisione, sfidando la finzione dei programmi registrati. Ma oggi il mondo dei social le ha esaltate: le dirette su Facebook, Youtube, Instagram, TikTok hanno rivoluzionato il nostro modo di comunicare e di presentarci al prossimo. Il mondo dei social ha fatto della diretta, ovvero un video trasmesso in tempo reale, mandato in onda nello stesso momento in cui viene realizzato, una delle modalità più caratteristiche dell’attuale società. Il vantaggio, innegabile, è che possiamo condividere emozioni, situazioni, narrazioni dal vivo, quando accadono, situate in luoghi in cui ci troviamo. Lo svantaggio è quello che nell’improvvisazione errori, inconvenienti, imprevisti sono dietro l’angolo. Occorre essere bravi a gestire le situazioni, e a trasformare eventuali imperfezioni in punti di forza.

Vi sono però due aspetti che fanno riflettere. Il primo: le dirette sui social sono beni di consumo immediato, perché la loro vita è generalmente molto breve. Sono pensate per colpire e sparire, sono destinate a essere digerite velocemente e altrettanto velocemente sostituite. In questo senso non è semplice spiegare, argomentare, pensare: tutto è fatto per essere “sparato e dimenticato”. Vi sono però due aspetti che fanno riflettere. Il primo: le dirette sui social sono beni di consumo immediato, perché la loro vita è generalmente molto breve. Sono pensate per colpire e sparire, sono destinate a essere digerite velocemente e altrettanto velocemente sostituite. In questo senso non è semplice spiegare, argomentare, pensare: tutto è fatto per essere “sparato e dimenticato”.

Il secondo: nelle dirette social vi è una attenzione ossessiva ai like, alle presenze. Chi è collegato? Quanti siamo? Mille, duemila, tremila…una sorta di ansia da prestazione a me difficilmente comprensibile. Rilassiamoci di più. Una diretta ha valore per ciò che riusciamo a comunicare, cioè non solo a trasmettere ma a mettere in comune con l’altro. Il numero certo fa piacere, ingolosisce. Ma non è quello il senso, non è quella la misura che dobbiamo cercare. Una diretta è come un salto senza rete, è l’unico, il sorprendente che prende vita. è , ovviamente, un rischio. Mi piace pensare che, come molte cose nella vita, c’è chi ci deve essere. E forse chi c’è sempre stato. Pianificare, programmare, ottimizzare è un altro gioco. La diretta è una occasione di incontro. A prescindere dal numero, occorre ringraziare e premiare chi c’è, per scelta o per caso. Far questo significa scoprire, nel profondo, la magia dell’incontro, seppur virtuale. E saper ringraziare.

Simone De Clementi

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Quel qualcosa in più

“Divertimenti di bimbi sono le credenze degli uomini” (Eraclito)

La nostra epoca è caratterizzata da un grande sviluppo nella tecnologia materiale. Una cosa buona, certo. Ma occorre qualcosa in più. Il rischio è che si riduca tutto a materia, in ogni campo del sapere, nella nostra privata e sociale.

Amore, interazioni, salute, sembrano affondare le loro radici certe nel materialismo: il nostro tentativo stesso di comprensione del mondo e della vita si ferma qui. Paradossalmente questo materialismo esasperato si è trasformato in una Fede, in un dogma fanciullesco quanto terribile. La Scienza stessa, o quella che oggi si definisce tale, lontana anni luce dalla sua origine e dal suo senso, ha abbracciato questo credo, esaltandolo e distruggendo ogni visione alternativa, perseguitandola ed escludendola dalla società, come eresia.

Questa è la tendenza generale dell’epoca: la tecnica e le pratiche di massa livellano i saperi, li svuotano di ogni significato, e promuovono una cultura che riduce gli uomini a parti di un meccanismo senza anima. Il mondo del lavoro rappresenta bene questo paradigma, ma la stessa cosa la troviamo nella scuola, nella medicina, nei contesti sociali. Dall’altra parte possiamo osservare una enorme regressione spirituale. L’uomo della nostra era sembra escludere questa dimensione, forse come non mai nella storia, e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

Vi sono dati, informazioni, spesso però manca il senso delle cose. Si consumano lavori, rapporti amorosi, merci, farmaci ma è la visione antropologica che viene meno. Conta la ricchezza, l’avere, non la nobiltà di una persona; libertà e giustizia sono parole molto pronunciate ma messe in pratica raramente. La conoscenza e la saggezza spirituale sono accessori in un mondo dove il successo, la forma fisica, l’apparire la fanno da padrone. Ecco allora che oggi, proprio oggi, è tempo di puntare a quel qualcosa in più. Paradossalmente, proprio in una crisi profonda come quella che stiamo vivendo oggi, in un tempo dove libertà ed etica sono alla deriva, è importante guardare a un risveglio interiore. Oltre la materia c’è il significato delle cose. C’è bellezza, intelligenza e, soprattutto, un sapere più profondo che ascolta e rispetta la Natura e le sue leggi.

Oltre il materialismo vi è la Sapienza, vi è la vera Scienza. Il compito di ogni donna, di ogni uomo è quello di evolvere e di acquisire un sapere dell’anima capace di svelarci i nostri talenti e di metterli al servizio del Mondo. Servono intellettuali, profeti, filosofi, un po’eretici ma soprattutto servono persone di cuore.

Simone De Clementi

UNA PICCOLA MORTE

Tra le tante definizioni dell’amore prodotte nella storia del pensiero umano, ve n’è una che ritengo fantastica per la sua bellezza e per la densità delle parole. E’ quella proposta da Ibn ‘Arabi, filosofo, mistico sufi e poeta arabo vissuto a cavallo tra il 1100 ed il 1200, poco conosciuto alle nostre latitudini, soprattutto alle masse, anche se paradossalmente la sua opera ha influenzato generosamente il pensiero occidentale oltre a quello orientale.

La definizione di ibn ‘Arabi è tanto sintetica quanto profonda: “l’Amore” – scrive il saggio Sufi – “è una piccola morte”. Il senso è preciso: praticando la vita si pratica anche la morte. Più lasciamo che la vita ci attraversi, più sarà l’energia a nostra disposizione nella vita. Se siamo in contatto con la vitalità del nostro corpo, se la nostra vita è abbondante, l’Amore si presenta sempre, puntualmente. Se al contrario la nostra vita è piatta e abbiamo paura, siamo già un po’morti, anche se respiriamo. Ma di quale Amore parla Ibn ‘Arabi? Non c’è dubbio: è l’Amore spirituale, che è quello intellettuale ed è quello fisico. Tutto è uno.

Gli amori finiscono, muoiono: e il significato dell’Amore paradossalmente lo prova soltanto chi ha provato la sua perdita, una piccola morte, appunto. Così è la vita, che va di piccola morte in piccola morte, da innamoramento in innamoramento. La vita è Amore, per gli amici, per una donna, per un uomo, per un animale, per ogni creatura e per ogni elemento, per l’Universo. La Natura è respiro di Dio e per Ibn ‘Arabi, il fine dell’uomo consiste nell’unirsi misticamente a Dio nell’Amore. Amore come unione con il divino e come piacere, come preghiera e come orgasmo: entrambi infatti sono un abbandono totale al sé, all’Energia, all’Amore. Grande il pensiero di questo personaggio, che ha influenzato anche Dante e San Giovanni della Croce. Santo proprio perché uomo in carne e ossa, uomo che si sposa e divorzia, uomo che danza l’esistenza alla ricerca del senso della vita: in fin dei conti di sé stesso.

(Simone De Clementi)

(Ibn ‘Arabi)

Dove siamo diretti?

Per sapere dove siamo diretti, quale futuro ci attende, dobbiamo innanzitutto riconoscere con onestà dove ci troviamo adesso.

Bene, oggi ci troviamo come all’interno di uno “stato alterato di coscienza: siamo ipnotizzati da troppe informazioni contrastanti e l’equilibrio tra la quantità di informazioni che arrivano al cervello e la quantità di informazioni che il cervello stesso riesce ad elaborare non c’è più. inoltre abbiamo in noi e intorno a noi livelli molto alti di paura e di incertezza che ci bloccano, ci rendono ansiosi, ci tolgono fiducia verso il futuro.

E’ in atto un passaggio d’epoca, e quasi non ce ne accorgiamo. La scienza, la politica, la scuola, le istituzioni sembrano improvvisamente vecchie e inaffidabili. L’economia e la finanza mostrano i loro limiti, così come le abbiamo concepite negli ultimi 50 anni. La disoccupazione aumenta, riaffiorano scontri razziali. I diritti civili sono a rischio, così come la nostra libertà. Sempre più persone lo stanno vedendo. Il mondo intero è in agitazione.

Liberare il cervello, liberare il corpo

Questo è il punto in cui ci troviamo. Dove siamo diretti, allora? E’ tutto in gioco, e dipende da noi. Che cosa possiamo fare concretamente per abitare un futuro migliore, giusto, desiderabile per noi e per le generazioni future?

Affermare la nostra dignità, rivendicare il nostro valore. E’ importante rifiutare un sistema che ancora ci opprime e creare, insieme, un forte senso dei valori. Solidarietà, giustizia, uguaglianza su tutti. Finché i nostri cervelli sono resi schiavi dalle narrazioni fuorvianti dei media, i nostri corpi non possono essere liberi. Siamo persone con dignità e onore. Non vi è destra né sinistra, differenza religiosa o sociale, di genere o culturale. Siamo uno, siamo una cosa sola. E’ questo quello di cui dobbiamo renderci conto nelle nostre comunità. E’ tempo di raddoppiare il nostro impegno per costruire insieme un nuovo edificio sociale, una nuova società. Perché una società che produce ingiustizia e povertà ha bisogno di essere ristrutturata.

Simone De Clementi

Il grande viaggio: appunti per un nuovo mondo del lavoro

“Su un viaggio che non porta con sé una vittoria, non si può fare affidamento” (Ibn ‘Arabi) 

“La più importante forma di amicizia da coltivare al nostro tempo è quella tra generazioni: soltanto nella stima e nel rispetto reciproco troveremo un nuovo equilibrio, una nuova via entusiasmante da percorrere insieme” (Simone De Clementi)

“Una generazione pianta gli alberi, un’altra si prende l’ombra” (Proverbio cinese)

Ipotesi, scenari, previsioni. Il mondo del lavoro esce dal post Covid -19 con molte domande e una sola certezza: nulla sarà più come prima. Inizia un passaggio d’epoca, come rare volte accade nella storia, tra il silenzio dei più e un clima di insicurezza generale. Eppure inizia. Io chiamo questo cambiamento, profondo ed epocale, “il Grande viaggio”, un ingranaggio di situazioni che ci porteranno ad una rapida rivoluzione politica, economica, sociale ed organizzativa che interpellerà le nostre coscienze ed il nostro sistema di valori.

A che cosa guardare in questo “Grande viaggio”? Quali sono i principali elementi da tenere in considerazione per affrontarlo? Ecco alcune suggestioni. L’innovazione, di processo, di servizio, di prodotto è senz’altro un tema molto caldo ma non è il solo. Nella ripartenza post Covid -19 appare chiaro che l’area su cui occorre investire e riflettere più che mai è proprio il personale. Sì, certo, il personale, cioè ciò che consente a un’azienda di avere un valore unico, strategico, irripetibile. Oppure, all’opposto, ciò che rende un’azienda poco appetibile, nonostante i macchinari, i processi, la posizione sul territorio, la sua storia.  Il valore aggiunto è proprio quello del personale, con le sue conoscenze, la sua capacità di lavorare in team, la sua motivazione a migliorarsi costantemente e a diffondere un clima di benessere lavorativo. Le persone fanno l’azienda, qualunque essa sia, pubblica o privata, regionale, nazionale o multinazionale, perché ne incarnano lo spirito, la missione e i valori. Le persone garantiscono concretamente con il loro comportamento e il loro lavoro ciò che l’azienda persegue idealmente con la carta: la qualità, la garanzia verso i clienti, l’affidabilità, la responsabilità sociale d’impresa, ovvero le implicazioni di natura etica all’interno della visione strategica adottata. Insomma tutto quello che è scritto, dichiarato, pubblicizzato passa e prende senso solo attraverso un’adesione vera e sincera delle persone, a ogni livello organizzativo.

Tecnologia amica

Oggi, in questa situazione particolare di emergenza, esiste anche una grande possibilità: quella di rivedere i processi, l’organizzazione, le politiche del personale, le strategie. E vi è inoltre l’opportunità di pensare a ciò che sarà, con modelli razionali/anticipatori che permettono di entrare nel futuro con fiducia. Facciamo esempi concreti: sul lavoro la diversità anagrafica è un patrimonio, una risorsa che questo momento storico ci offre.  Un’opportunità dunque, un punto di forza, non un punto di debolezza come molte imprese purtroppo ancora credono. I più lungimiranti sviluppatori di talenti (Talent Developers, n.d.a.), cioè quei professionisti che hanno il compito di far emergere e sviluppare il talento dei dipendenti curando i percorsi di apprendimento e l’aggiornamento continuo delle competenze, ritengono che una forza lavoro multi-generazionale contribuisca in modo significativo al successo di una azienda. Da un lato ci sono le giovani generazioni, con l’energia e l’entusiasmo che, se giustamente alimentate, possono portare nuove idee, nuovi approcci, velocità e forza; dall’altro abbiamo le generazioni esperte, che giustamente motivate possono contribuire non soltanto alla crescita professionale dei più giovani, ma anche alla trasmissione della memoria, dei valori aziendali attraverso simboli, narrazioni e la trasmissione della conoscenza tacita, trasmissibile solamente con metodologie autobiografiche. Il compito di un’azienda è allora quello di saper vedere questa situazione e di aiutare ogni generazione a fare buon uso dell’esperienza, della prospettiva e dei punti di forza dell’altra.

Generazioni insieme

Che cosa è necessario allora tener presente per evitare errori e fraintendimenti, per costruire team affiatati e per fare in modo di diffondere concretamente il ben-essere organizzativo, quell’indicatore spesso trascurato che può condurre a ottenere brillanti risultati? Certamente è importante sapere e analizzare che cosa conta di più in un lavoro per ciascuna generazione. Spesso questo non si fa, viene dato per scontato, o, peggio, nemmeno si osservano i differenti punti di vista generazionali. Una occasione persa! In secondo luogo è importante individuare quali sono le strategie di fidelizzazione che funzionano meglio per le varie generazioni, evitando l’uscita di risorse valide verso altre mete. E, non da ultimo, occorre allestire con cura e obiettivi misurabili una forza lavoro multi-generazionale e multiculturale fornendo a tutti, e in particolar modo alle figure con responsabilità di gestione e di coordinamento, le conoscenze adeguate. Chi percorrerà questa via farà fruttare la diversità anagrafica e otterrà indubbi benefici.

Un altro esempio è quello dell’utilizzo avanzato e per obiettivi del lavoro agile (smart working): in questo modo i tempi morti si riducono, la responsabilizzazione è alta ed anche il benessere dei dipendenti è facilitato. Ciò che conta non è tanto il tempo lavorato, ma la qualità del tempo lavorato, la capacità di raggiungere obiettivi, l’abilità di crearne di nuovi. I temi più caldi sono ovviamente quelli della formazione a questa tipologia di lavoro che necessita di nuove prospettive e quelli legati alla sicurezza e all’innovazione dei dispositivi e dei programmi messi a disposizione dei lavoratori.

Ancora, è importante focalizzarsi sulla motivazione e sull’acquisizione per la totalità del personale delle cosiddette soft skills, spesso bistrattate, giudicate inutili e poco attinenti a molte professionalità. La loro diffusione capillare e ad alti livelli di qualità è invece secondo molti esperti in Risorse Umane una delle più importanti innovazioni in questo incerto momento storico e rappresenta sicuramente un patrimonio sia per le imprese sia per i lavoratori, sempre più spesso chiamati a ripensare il proprio progetto di vita e di lavoro.

Infine, e non da ultimo, vi è il tema della sicurezza. Troppo spesso più che agire si è prodotta carta, si è chiuso un occhio o anche due su ambienti, procedimenti, presenza e corretto utilizzo di dispositivi. L’attuale emergenza sanitaria va a sollecitare con forza anche questo aspetto, unendo il rischio sanitario a quello intrinseco a ciascuna tipologia di lavoro. Ecco allora l’importanza di investire certo su una adeguata formazione, su dispositivi e procedure a norma ma soprattutto sulla diffusione di una cultura della sicurezza, la vera grande assente nel nostro Paese.

Il “Grande viaggio” è allora tutto questo, e anche altro che occorre immaginare e realizzare insieme. In un momento di difficoltà si tratta di una grande occasione che ci regala la storia per ripensare, innovare e creare situazioni più umane, più rispettose delle persone e dell’ambiente e soprattutto più capaci di promuovere un’idea di lavoro capace di premiare le eccellenze e di essere competitiva, senza tagli vestiti da ottimizzazioni ma attraverso investimenti capaci di portare prima a evitare sprechi poi a generare abbondanza.

Simone De Clementi
(Foto Elisabetta Maria Arici)

 Simone De Clementi

Note sull’avvenire delle RSA

“Si sopravvive di ciò che si riceve, ma si vive di ciò che si dona”
(Carl Gustav Jung)

“Ripensare il modello di assistenza significa prendersi cura concretamente di tutti i soggetti presenti nella relazione terapeutica: operatori, ospiti, familiari. E significa farlo a livello biologico, sociale, psicologico, culturale” 

(Simone De Clementi)

L’emergenza covid-19 ha fatto emergere molte criticità e contraddizioni all’interno del sistema delle Residenze sanitarie assistite (RSA). Bisogna chiarirci: è stato un fattore  di stress eccezionale certo, ma il sistema non funzionava già da prima. Se in alcune strutture si lavorava con metodo, con impegno, con dedizione, facendo attenzione al benessere sia degli operatori sia degli ospiti, in altre strutture questo non accadeva.  Vi erano criticità evidenti e problemi nascosti, spesso causati da un sistema molto burocratico e poco centrato sulle persone. Ora, con quello che è successo, abbiamo improvvisamente aperto gli occhi su un mondo nascosto, o meglio trascurato, poco conosciuto nelle sue dinamiche, spesso considerato una fastidiosa appendice della Sanità.

Eppure i numeri raccontano di 4.629 RSA sul territorio nazionale, di cui 2.651 al Nord, 668 al Centro, 493 al Sud e 817 nelle isole, per un totale di 340.593 posti letto (dati GNPL National Register). Un quadro che comprende eccellenze e mediocrità, progetti innovativi e disorganizzazione ed anche casi in cui si registrano negligenze, violazioni e disinteresse verso i dipendenti e verso gli anziani. Un quadro che racconta di costi sempre più alti, spesso insostenibili per le famiglie e per la collettività. Un quadro che racconta anche di una popolazione anziana molto numerosa, fragile, con patologie sempre più complesse e impegnative da trattare in molte strutture. Un esempio su tutti i pazienti con deterioramento cognitivo (Malattia di Alzheimer, demenza fronto-temporale, eccetera), categoria in continuo aumento da almeno una ventina d’anni a questa parte e che, nella maggior parte dei casi, non ha reparti ad hoc ma si trova a convivere con gli altri ospiti, con tutte le difficoltà connesse per gli operatori e con evidenti problemi di sicurezza e di gestione del rischio.

Ci siamo stupiti di una narrazione che ha portato alla luce la debolezza di un sistema che, già fragile, spesso non ha retto all’onda del contagio, eppure i dati sono chiari. Il Report dell’Istituto Superiore di Sanità datato 20 aprile 2020 segnala come principali criticità la mancanza di dispositivi di protezione individuale (DPI), l’assenza di personale sanitario, la scarsità di informazioni sulle procedure da attuare per contenere le infezioni e la carenza di farmaci. Si tratta di criticità che possono mettere a rischio l’esigibilità dei diritti fondamentali della persona, dunque sono eticamente inaccettabili.

Questi sono i fatti: ora, più che giudizi, interessano proposte e prospettive. Occorre un mutamento fondamentale nel settore e, per metterlo in atto, occorre una “visione” capace di immaginare il “dopo”.

I problemi più frequenti nelle strutture interessano più aree, spesso collegate tra loro. Penso per esempio alla selezione del personale, dove si cercano divise e non persone. L’idea diffusa è che basta avere una qualifica e il gioco è fatto. Non è così: assumere qualcuno in emergenza o valutando il suo curriculum è facile, quasi banale. Ma assumere una persona valutando se è la persona giusta per il contesto, per il team lo è molto meno. La cultura aziendale, l’efficienza dell’organizzazione, la rispondenza alla mission partono da qui. Avere persone ragionevolmente motivate e disposte ad aiutarsi fa la differenza, soprattutto in situazioni di emergenza. Penso all’attenzione all’ospite, soprattutto in momenti fondamentali, come l’igiene, il pasto, le attività educative. I momenti di solitudine e sconforto. Vi sono vari modi di lavorare, di garantire almeno ciò che al buon senso appare evidente e scontato. Ma scontato non è. C’è una qualità cartacea, un rispetto di standard e di regole apparente, ed uno reale, concreto. Vi sono parametri economici e valori etici. L’equilibrio è una virtù che si raggiunge con la pianificazione, la visione, lo studio. E anche con investimenti.

Penso ancora alle strutture, a come sono costruite, a come sono organizzati gli spazi interni e quelli esterni. Spesso sono datate, inadeguate allo scopo, con problemi di accesso e con difficoltà a reperire spazi adeguati in caso di isolamento. Ecco perché una nuova stagione di architettura e di ingegneria per il sociale è da pensare e da realizzare, con al centro  le esigenze degli anziani del nuovo millennio, così diversi da quelli del secolo scorso; fatta di materiali adeguati, naturali,  di percorsi a colori, di luce, di esperienze tattili, di benessere e di sicurezza.  Penso agli strumenti a disposizione degli operatori, indispensabili per la sicurezza degli ospiti e del personale stesso e che spesso mancano o non sono utilizzati. Penso all’importanza della prevenzione anche all’interno del sistema assistenziale, intesa soprattutto come risorsa capace di educare e stimolare la capacità dei singoli a prendersi cura di sé. Penso all’attenzione che dovrebbe avere una corretta alimentazione, il primo tra i farmaci.

E certo, penso soprattutto alla formazione

Innovazione digitale in RSA: Il futuro è anche questo

specifica degli operatori, sia tecnico-professionale sia relazionale, a volte trascurata o sottovalutata. Non è possibile affrontare situazioni complesse senza un adeguato aggiornamento, senza lavorare sulle novità proposte in campo medico, educativo, assistenziale, senza diffondere le conoscenze linguistiche e comunicative essenziali per saper far fronte alle richieste dei familiari, alla relazione con le persone anziane. Non si può pensare di offrire umanizzazione nelle cure se non si lavora per costruire team efficienti, efficaci e soprattutto motivati. Incoerenze di un sistema che deve cambiare. Dunque, più competenze agli operatori, più formazione anche in settori che finora venivano trascurati. Capacità di gestire emergenze, a tutti i livelli. Su questo occorre puntare. Come occorre puntare sulle nuove tecnologie, su dispositivi ad hoc capaci di mettere in contatto i familiari con gli ospiti a distanza, su tecnologie capaci di portare davvero la digitalizzazione dei dati nelle strutture e di renderli fruibili a medici, laboratori, ospedali. Informatizzare, formare e umanizzare: tre parole che devono ispirare il domani.

Io non sono scoraggiato riguardo al futuro. D’accordo che il facile ottimismo di ieri è impossibile; d’accordo che ci troviamo di fronte a una crisi mondiale che ci lascia sgomenti di fronte al domani. Ma ogni crisi ha al tempo stesso i suoi rischi e le sue possibilità. Può significare blocco o rinnovamento. Dipende da noi, soltanto da noi. Questo è un momento di fine e di inizio.

I vecchi sistemi di lavoro e di organizzazione non possono essere la risposta per il futuro, ed inevitabilmente scompariranno. In un momento buio e confuso, avere questa certezza, avere questa determinazione ci può condurre a realizzare un sistema migliore.

                                                                                                                                                      Simone De Clementi

Appunti per il tempo che verrà

“Ciò che contraddistingue le menti davvero originali non è l’essere i primi a vedere qualcosa di nuovo, ma il vedere come nuovo ciò che è vecchio, conosciuto da sempre, visto e trascurato da tutti” (Friedrich Nietzsche)

“Una crisi, dolorosa, profonda, quasi assurda può portare in sé i semi di una grande rinascita, di un mondo più giusto e migliore. Tocca a noi decidere, tocca a noi accorgerci se cambiare la rotta o proseguire indifferenti verso il Nulla” 

(Simone De Clementi)

Qualcosa non andava. Ora ce ne rendiamo conto. Anzi, molti tra noi in questo periodo hanno avuto una conferma di qualcosa che avevano in qualche modo già intuito. Meglio mettere ora, mentre siamo ancora in emergenza e Dio sa fino a quando, queste cose per iscritto. Per riflettere, immaginare il mondo che ci sarà dopo. E realizzarlo insieme, con una visione differente. E con Amore.

Iniziamo dalle nostre città, dai nostri Paesi. Le abbiamo spesso svuotate dei servizi essenziali, dei negozi che garantivano il necessario per la nostra vita: alimentari, botteghe, artigiani, negozi di prima necessità. Perfino farmacie.  Il consumismo e la legge del profitto ci ha portati a costruire grandi centri commerciali, con grandi negozi, con grandi parcheggi, ma lontani dalle nostre case. Perfetto: quando però non possiamo uscire da un territorio, da un comune, capiamo l’importanza del negoziante nel nostro paese, nel nostro quartiere. Comprendiamo l’importanza di un servizio, aldilà di ogni questione di prezzo. E, se ci pensiamo, vediamo anche che sono proprio quei grandi centri commerciali che hanno fatto chiudere i negozi nei nostri paesi. Abbiamo fatto del consumismo una divinità, anche quando i primi segnali di poca sostenibilità iniziavano ad arrivare. Ora questi luoghi appaiono per quel che sono: irreali, alienanti, inutili, perché sono lontani e perché con una pandemia in corso non è proprio il massimo andare in posti con un casino di gente. La città di domani dovrebbe tenerne conto, e far tornare a vivere le attività commerciali nei comuni, nei rioni, nelle frazioni è segno di lungimiranza e di umanità, di nuova economia. Di incontro e di solidarietà, di innovazione e di qualità della vita.

Città viva (Foto di Simone De Clementi)

Lo stesso discorso vale per i servizi. Chiusi molti uffici postali, ci sono pochi studi medici (pochi dottori per scelta e diciamolo, sbagliata, grazie al numero chiuso), uffici pubblici ridotti e spesso decentrati.  E molto altro, basta metterci la testa. Può essere tutto informatizzato? Direi di no. Con i servizi educativi, con i servizi alla persona e con i servizi pubblici non si risparmia, si investe. Si investe bene, ovvio. Ma si investe. Ricordiamoci di chi ha chiuso ospedali, ambulatori, uffici. Ricordiamoci di chi ha diminuito i mezzi pubblici. Di chi ha chiuso scuole, asili, centri ricreativi. Tutto in nome dell’ottimizzazione, del risparmio. In realtà hanno fatto tagli senza senso che hanno peggiorato la nostra vita, perché gli sprechi, diciamolo, erano proprio da altre parti. Ospedali senza posti letto, forze dell’ordine senza benzina e mezzi, comuni spesso sotto organico e con uffici obsoleti, strade e ferrovie inadeguate, meno servizi. E tasse sempre e comunque più alte. Qualcosa da ripensare forse l’abbiamo.

Vogliamo parlare poi della scuola, di ogni ordine e grado, maltrattata, violentata, ridotta al silenzio? I bravi docenti non bastano perché non hanno gli strumenti, spesso quelli essenziali. Molte scuole sono vecchie, inadeguate. I programmi certamente lo sono. Il rispetto dei ruoli, fondamentale per ogni agenzia educativa, perso. Poca meritocrazia, tanta approssimazione. Anche a livello universitario, il più alto grado d’istruzione del nostro Paese. Tanta fuffa, più laureati ma nella maggior parte dei casi di livello inferiore, con meno qualità. Le tesi della triennale sono spesso una vergogna, una mancanza di rispetto verso i candidati, verso la loro intelligenza. È lo specchio del Paese, meno qualità da un lato, più approssimazione dall’altro. E questo in ogni campo: nella politica, nazionale, regionale, comunale in ogni schieramento; nelle professioni, nelle arti e nei mestieri. Nella scienza, nella medicina, nella formazione.

Il lavoro poi. Più che diffondere benessere, crescita personale, merito si ha il coraggio di proporre ancora il sacrificio come valore, la quantità al posto della qualità, l’adulazione dei superiori al posto della meritocrazia, il potere personale al posto di un’ organizzazione razionale. In qualunque realtà ciò che conta sono la relazione, la fiducia e l’armonia. Queste cose sono alla base di ogni successo, di ogni capacità di competere lealmente sul mercato. Il lavoro è la via che deve garantire non soltanto sussistenza ma anche dignità a una persona. Dunque va pagato. E chi lavora meglio va pagato di più, garantendo un minimo a tutti. Le aziende che hanno innovato, premiato, trattato bene e scelto con oculatezza il personale sono vive, sono sul mercato. Le altre sono fallite o falliranno, e francamente non è una disgrazia.

E, non da ultimo, ci sono i valori che si trasmettono concretamente con i messaggi che diamo e con i comportamenti che mettiamo in essere. Quali sono i valori che potrebbero servirci, passata l’emergenza? Certamente una competizione virtuosa, volta alla collaborazione più che all’eliminazione dell’altro. Una gara per permettere a ciascuno di esprimere il suo talento, il suo lato migliore, ma con la volontà di condividere il sapere e le buone pratiche. Poi solidarietà e attenzione alla qualità della nostra vita e all’ambiente più che al solo profitto: utile certo, ma non come ragione di vita. Ci sono molti modi di essere ricchi e forse non ce ne rendiamo conto. Ancora giustizia, che è un equilibrio virtuoso tra il rigore e la misericordia. Poi bellezza e cultura, perché è con quelle che nel passato il nostro Paese ha conosciuto i suoi momenti più importanti, sereni, creativi. E innovazione e memoria, unite, perché abbiamo bisogno di collaborazione, di energia e freschezza ma anche di riflessione ed esperienza. Abbiamo bisogno di un patto generazionale perché questo è stato alla base di ogni grande civiltà, delle convivenze umane felici, feconde: la coesione e l’ascolto, la collaborazione tra le generazioni. Con una convinzione precisa: nessuno si salva da solo.

È da questa visione che dipenderà il nostro esserci, quello dei nostri figli, delle generazioni future. È dalle scelte concrete che faremo, figlie di questa visione, che dipenderà la qualità della vita, nostra e di tutti gli esseri viventi su questo meraviglioso pianeta. Intuirlo è fantastico, iniziare a pensarci insieme e agire è sacro.

Simone De Clementi

Oltre la comunicazione: l’azione verbale come via per il Nuovo Mondo

“Dio si manifesta in ogni cosa, ma la parola costituisce

 uno dei Suoi mezzi preferiti per agire, giacché esso è il pensiero trasformato in vibrazione.

Parlando, introduci nell’aria intorno a te ciò che prima era soltanto energia.

Stai sempre molto attenta a tutto quello che dici – continuò Wicca. La parola possiede un potere più

 grande di molti rituali”.

(Paulo Cohelo)

“Siamo il respiro di una narrazione vivente che si nutre di testi.

Un buon cibo dona gioia e una buona vita ”.

(Simone De Clementi)

Le parole sono importanti. Le parole fanno, creano mondi. In questi giorni ne abbiamo prove tangibili. La nostra vita ha avuto una variazione di qualità, verso il basso, non tanto per il diffondersi di un virus, quanto per la narrazione di questo evento. La narrazione presentata, da giornalisti, scienziati, politici, autorità è stata per lo più volta a colpire i nostri pensieri e le nostre emozioni portandoci verso uno stato di non salute. Come? Beh, è semplice: ogni pensiero, ogni riflesso a livello della mente fa attraversare a tutta la nostra chimica interna un cambiamento. Il nostro corpo sta meglio o peggio con il variare delle parole che ascolta, che dice, che pensa. E il cambiamento provocato dalla narrazione in questo inizio 2020 non è certo stato bello.

Il cattivo uso della narrazione è un fenomeno che accade spesso. In modo consapevole a volte, inconsapevolmente altre: il fatto è che non vi è molta differenza, gli esiti sono quello che conta. La soluzione è facile ed è a nostra portata. È una soluzione innovativa, poiché l’innovazione passa da molte strade. Vi sono eventi che, se ce ne accorgiamo, ci danno la possibilità di migliorare, di evolvere, di fare qualcosa di davvero importante per noi e per gli altri tra moltissime cose che facciamo soltanto per obbligo o per routine. I mutamenti ambientali, i flussi migratori e la loro gestione, le condizioni economiche dei nostri tempi, gli allarmi epidemiologici collegati alle emergenze sanitarie e molti altri segni raccontano, se ci facciamo caso, di competenze su cui investire. Competenze utili, se non indispensabili, per abitare i tempi che ci stanno venendo incontro.

“Parole oltre la cornice”
(foto di Elisabetta Arici)

Mai come ora appare evidente che nel Nuovo Mondo, nella società che è alle porte, le cosiddette competenze relazionali (soft skills) saranno necessarie per collaborare, per convivere, per realizzare business e servizi, per fare un salto di qualità nella politica, nella Pubblica Amministrazione, nella Scuola, nella sanità e nel sociale, nell’impresa. Ovunque. Andranno a permeare ogni segmento della società in modo importante, non per obbligo ma per richiesta. Saranno in una parola strategiche e di fatto lo sono già: il fatto è che non ci abbiamo dato troppa importanza, ci abbiamo pensato poco.

È giunto il tempo di occuparcene, perché il risultato che possiamo ottenere è il miglioramento della nostra vita, della nostra convivenza civile. Certo, queste competenze vanno profondamente ripensate. Nell’ultimo decennio si è investito con più o meno convinzione soprattutto sull’area “comunicazione”. Molte volte con qualità e progettualità, altre volte con approssimazione; a volte con interessanti sperimentazioni, altre volte con luoghi comuni e inesattezze. Chi ha puntato davvero sulla qualità ne ha tratto giovamento, in ogni contesto: interno, esterno, nelle vendite, nel marketing, nel miglioramento del benessere lavorativo, nella motivazione di individui e gruppi.

Oggi sono dell’idea che questo paradigma vada profondamente rivisto. Per penetrare con più precisione e coscienza nell’argomento e, soprattutto, per rendere queste competenze effettive nella realtà odierna, profondamente differente da ciò che è stato.

È tempo di cambiare visione passando dal concetto di comunicazione, parola di trasmissione e passività, di equivoco e di opinione, a quello di azione verbale.  L’azione verbale è la coerente corrispondenza tra parole pensate, pronunciate o scritte e azioni, tra codici di comportamento e comportamenti, tra regole e gioco, inteso nel senso ampio di ogni attività organizzata umana. L’azione verbale si occupa delle relazioni e delle interazioni che si creano tra le persone, partendo dalle parole.  È qualcosa di ampio, di vasto, di attivo che prevede comportamenti basati sulla reciprocità, capaci di stimolare la critica e la crescita conseguente di singoli e gruppi al fine di ottenere un incessante miglioramento dei soggetti interessati e, addirittura, delle istituzioni stesse. L’azione verbale è capace di andare oltre la spinta corporativa e settoriale che vede tante piccole realtà dialogare al loro interno senza riuscire a rapportarsi con gli altri, tante famiglie sociali e professionali chiudersi al loro interno, con i propri linguaggi, i propri segni, i propri riti senza trovare intersezioni di interessi e di intenti.

L’azione verbale è poi un’azione testuale, cioè un’attività capace di prendere in considerazione ogni testo: immagini, suoni, parole, simboli, gesti, abiti sono tutti esempi di “textum”, ovvero di intrecci di interazione. Una parola giusta può in sintesi essere smentita da un’immagine, da un suono, da un gesto e viceversa. Ogni testo è capace di creare un mondo e la scelta consapevole delle parole è in grado di mutare il mondo in cui ci troviamo a vivere. Abbiamo nelle nostre mani insomma una grande responsabilità.

È subito chiaro che le varie forme in cui la comunicazione è stata declinata, come per esempio “comunicazione per vendere”, “comunicazione assertiva”, “comunicazione di crisi” eccetera, vengono molto ridimensionate per lasciare più spazio a una cornice più grande, più completa, che pur affrontando le specifiche di particolari situazioni trova unità in una visione più generale, “olistica” nel significato etimologico del termine. In questa cornice occorre lavorare sulle competenze relazionali in profondità, costruendo una metacompetenza capace di coinvolgere attivamente le persone. Le metodologie didattiche adatte al compito sono più fluide di quelle tradizionali e basate sul gioco, sulla rappresentazione, sulla conoscenza dei punti di forza e dei punti di debolezza dell’individuo e sull’espressione in situazione dei contenuti appresi. Teoria certo, ma soprattutto una costante pratica, un lavoro di affinamento progressivo con un costante aggiornamento. In questa cornice l’altro è visto come alleato, come elemento allenante che sprona a ottenere sempre migliori risultati. La competizione lascia il posto alla collaborazione, alla correzione reciproca tesa al raggiungimento dei risultati migliori.

È facile entrare con gioia in tempi migliori, con la coscienza e la consapevolezza che siamo noi a crearli, ogni giorno, con le nostre scelte. E con le nostre parole. Se vogliamo davvero innovare e cambiare il nostro Paese, Pubblica Amministrazione in primis, è importante aiutare tutti, dipendenti, dirigenti, decisori politici ed economici, cittadini a fare un salto di qualità. Per il loro bene, per il nostro. Occorre fare certo, ma occorre anche scegliere le parole giuste, i testi più efficaci. Saranno proprio queste nuove modalità a costituire un nuovo Filo di Arianna capace di condurci in quella che Karl Popper definiva “Società Aperta”.

Nuovi contenuti, nuove modalità didattiche, nuovi obiettivi. Corsi che sono percorsi di vita, di esperienza, di consapevolezza. Ingredienti nuovi e magici per cambiare la solita zuppa. Le idee ottime hanno fatto il loro tempo: è tempo di creare qualcosa di veramente straordinario.

Simone De Clementi

Nuovi orizzonti per la Pubblica Amministrazione

Parlare di accesso, dopotutto, significa parlare di distinzioni e divisioni, di chi sarà incluso e di chi sarà escluso. L’accesso sta diventando un potente strumento concettuale per riformulare una visione del mondo e dell’economia, ed è destinato a diventare la metafora più efficace della nuova era”                                              (Jeremy Rifkin)

“Davanti ai nostri occhi c’è un nuovo Stato, c’è una nuova organizzazione della Pubblica Amministrazione che tuttavia non riusciamo a vedere. Più che capire dobbiamo accorgerci e poi praticare. Ciò che facciamo è più santo di ciò che affermiamo” (Simone De Clementi)

Parlare e scrivere oggi di Pubblica Amministrazione (P.A.) significa non soltanto prendere atto di quel che c’è (regolamenti, leggi, procedure) ma avere la capacità di immaginare ciò che sarà, anticipando problemi e scenari per trovare le soluzioni più efficaci. Viviamo in un’epoca di passaggio  che ci annuncia a gran voce che nulla sarà come prima: in questo senso siamo come esploratori che stanno penetrando nuove terre: le carte geografiche conosciute possono dare un aiuto solo parziale, perché occorre disegnarne di nuove.

Tra le molte trasformazioni che premono alle porte del nostro mondo, ve ne sono a mio avviso due particolarmente rilevanti che interessano oggi la Pubblica Amministrazione, ovvero l’insieme degli Enti Pubblici che caratterizzano la vita di uno Stato, la sua organizzazione e la sua azione nelle materie di sua competenza. Queste due trasformazioni sono già sotto i nostri occhi e paradossalmente non le vediamo. Per farlo occorre spostare lo sguardo dalle nostre abitudini, da dove portiamo abitualmente l’attenzione, dai nostri comportamenti quotidiani. Soltanto così possiamo accorgerci di loro, e dei mutamenti che esse comportano: nella nostra percezione nessun cambiamento è stato mai così rapido e così esteso.

In questo scenario possiamo scegliere: o prepararci a scansare le insidie e rimanere sulla difensiva o aprirci alla sorpresa, alla novità. Per chi sceglie la seconda strada, quella della meraviglia e del progetto, è scritto questo  articolo: persone consapevoli di contribuire alla costruzione di qualcosa di nuovo, attraverso gesti e parole nuove, attraverso una tenace concretezza.

La prima sfida riguarda l’impatto delle nuove tecnologie che, come ben anticipava Jeremy Rifkin nel 2000, “è un processo che sta cambiando radicalmente la struttura della società e il nostro modo di vivere”. Questa sfida, è facile intuirlo, comprende un aspetto tecnico, legato all’hardware, ai software. A macchine e programmi che nei fatti possano da un lato semplificare il lavoro dei dipendenti, dall’altro garantire trasparenza, velocità, sicurezza al cittadino. Si tratta di raggiungere un equilibrio virtuoso che permetta di realizzare una “burocrazia leggera” più consona alla realtà del Terzo Millennio. Ma l’aspetto tecnico non basta. Occorre una maggiore diffusione di elevate competenze digitali tra i dipendenti e di una coscienza diffusa dei rischi della cultura digitale. Questo comporta sia una volontà politica capace di indirizzare scelte e decisioni realmente democratiche, sia investimenti importanti nel settore. Oggi non è solo il denaro, non sono solo i beni materiali a creare diseguaglianze. Il nuovo volto dell’emarginazione passa e passerà sempre più attraverso la cittadinanza digitale, il libero accesso alla Rete, la possibilità di essere connessi, sia per lavorare sia per aver accesso a servizi e informazioni che ci rendono parte della comunità.

Vi è un aspetto politico-filosofico, che deve garantire i fondamentali valori della Costituzione, e vi è poi il lato della visione e dell’allocazione delle risorse. In questo senso la Pubblica Amministrazione dovrà investire sulla formazione dei suoi dipendenti, ma anche su sistemi di sicurezza, di protezione da attacchi hacker, su polizze assicurative capaci di proteggere dalla perdita di dati, su sistemi unificati capaci di connettere le informazioni  dei diversi uffici  con procedure compatibili. I servizi sociali dovranno prendersi carico anche degli “analfabeti digitali” per garantire la titolarità di diritti e l’erogazione di prestazioni.  Su questo oggi abbiamo ancora molto lavoro da fare. Un po’ per cultura (ciascun ufficio o area o dipartimento ha spesso il suo programma, il suo antivirus, i suoi processi, le sue abitudini) un po’ per visione (s’investe mediamente poco in queste voci, che peraltro sono strategiche, preferendo spese in settori d’immediato riscontro).

Esempi di rischi (dal sito dell’Agenzia dell’Entrate)

La seconda sfida è ancora più importante. Si tratta di dare valore alla Pubblica Amministrazione con gesti concreti. In una società sempre più complessa e plurale chi lavora nella Pubblica Amministrazione deve sempre essere portato a dare il meglio. Per questo è fondamentale investire in iniziative capaci di motivare e creare un importante spirito d’appartenenza nel personale, a qualunque livello. Oggi chi lavora in questa variegata realtà (Comuni, Provincie, Regioni, ASST, Ospedali, Ministeri, Enti, Università, Ispettorato del lavoro e molto altro ancora) percepisce spesso un abisso tra azione pratica e professione di principi, tra il fare e il dire. Da una parte si professano con orgoglio principi nobili ed elevati, dall’altra si pratica miseramente proprio l’antitesi di quei principi. È il caso della tanto gettonata meritocrazia, dei nuclei di valutazione, della trasparenza amministrativa, della privacy e di molto altro. Enunciazioni nobili che spesso nascondono il loro contrario. In questo modo non si porta in alto la pubblica Amministrazione, ma la rende anemica, depressa. È tempo di invertire la rotta conformando parole e atti. Se vogliamo dare valore alla P.A. dobbiamo investire in essa. E dobbiamo investire in denaro, organizzazione e conoscenza.  L’isitituzione di una scuola ad hoc, capace di fornire delle basi comuni sia su saperi tecnico/giuridici che relazionali, è certo una buona idea che va perseguita con urgenza e visione.  In una scuola simile è importante trovare spazio per studiare le best practices diffuse su tutto il territorio nazionale e anche nell’Unione Europea e adottare una didattica esperienziale. Infatti, diffondere esperienze, soluzioni in territori e organizzazioni omogenee tenendo sempre uno sguardo sul futuro è il vero obiettivo. Un obiettivo che può essere raggiunto con il contributo di diversi professionisti, accademici, esperti in P.A. ma anche provenienti da realtà differenti. Chi innova spesso è estraneo rispetto al campo che vuole innovare.

Per far questo occorre diffondere benessere organizzativo, fiducia, motivazione nei dipendenti a ogni livello gerarchico. Attaccamento al posto di lavoro e orgoglio. La via del miglioramento passa attraverso la formazione e la selezione del personale: come scrive Simon Sinek “assumere qualcuno valutando il suo curriculum è facile. Assumere qualcuno valutando se è la persona “giusta” per noi lo è molto meno”.

Occhi al sole, per star bene
(foto di Elisabetta Arici)

Il motivo è piuttosto ovvio: se cerchiamo qualcuno che svolga soltanto un lavoro, ci fermeremo alle competenze, al fatto del superamento delle prove di concorso. Sono fatti. Ma se cerchiamo la persona “giusta” per la nostra organizzazione, oltre ai fatti (superamento delle prove oggettive) vi sono le sensazioni e le tecniche che ci consentono di scegliere personale con le competenze necessarie ma al tempo stesso capace di condividere i valori e le modalità specifiche di quel luogo, di quelle persone, di quella parte di organizzazione. Si tratta in poche parole di trovare la tessera più adatta nel nostro mosaico, non un pezzo qualsiasi.

Il primo atto è difendere e sostenere la Pubblica Amministrazione, con lungimiranza e forza. E capire che la più grande ingiustizia è trattare tutti come se fossero uguali. Siamo uguali nei diritti e nei doveri, non nelle prestazioni. Queste variano da persona a persona, nel tempo. Se non ne teniamo conto stiamo perpetrando la più grande ingiustizia possibile: stiamo di fatto fiaccando motivazione ed entusiasmo per promuovere un comodo quanto ingiusto egualitarismo.

Affermo questi concetti da cittadino e professionista che crede nelle potenzialità della P.A. in tutte le sue forme. Sono convinto (e il dato è facilmente dimostrabile) che vi sia molta retorica e poca verità nella classica disputa tra pubblico e privato. Il pubblico non ha in sé ogni vizio e, soprattutto, il privato non è così virtuoso e innovativo come spesso viene dipinto. Per fare confronti è indispensabile tenere presente anche le differenze tra le differenti realtà.  Il nostro futuro passa da un’alleanza virtuosa tra queste realtà, non da competizioni o sterili accuse. Il futuro ci aspetta: soltanto con una costruttiva collaborazione potremmo scoprire in noi il potere di realizzarlo.

Simone De Clementi

Verso un nuovo paradigma: gestire i conflitti con la pratica collaborativa

“La disciplina mentale non richiede alcuna credenza o fede, ma soltanto la presa di coscienza che lo sviluppo di una mente più calma e limpida è un obiettivo nobile” (Dalai Lama)

“Prima di entrare in un conflitto è importante avere gli strumenti per comprenderlo, per gestirlo. E quando padroneggiamo questi strumenti ci accorgiamo che la maggior parte dei conflitti semplicemente si risolvono” (Simone De Clementi)

Non è facile scardinare certe credenze. Sono come scritte nel nostro DNA, tramandate dalla cultura, dalla famiglia, dalla scuola, dal pensiero dominante. Una di queste credenze è quella che afferma che “bisogna prendere un avvocato solo per fare la guerra”, per avere ragione, per distruggere chi sta dall’altra parte. Una visione particolare, che intende i professionisti come pugili pronti a suonarsele, perché pagati, e spesso non si sa bene il perché, qual è l’obiettivo, che cosa davvero vogliamo e, ancor di più, che cosa possiamo ottenere.

Accade in molti casi: che ci sia di mezzo un’eredità, una lite per un confine, un problema di vicinato o con un professionista o altro poco importa. La credenza è forte e permane anche nel campo delicato del diritto di famiglia: le separazioni, pensiamo, devono essere sanguinose e litigiose. È nella loro natura.

Il libro di Armando Cecatiello “Separarsi bene con la pratica collaborativa” (Cornaredo, red!, 2017, 157 pagine, 10,00 euro TEMPO STIMATO DI LETTURA: DIECI GIORNI), presenta un punto di vista differente. Partendo dalla constatazione che la fine di una relazione è sempre un momento non facile, un’esperienza che porta con sé sofferenza, l’autore si chiede se sia sempre necessario aggiungere risentimento, desiderio di vendetta, rabbia, un mix di elementi che rovina la vita di tutte le parti coinvolte. Spesso l’esito dei processi di divorzio è fatto di storie di distruzione personale, familiare e finanziaria: una sconfitta, in ogni caso, per tutti.

Per fortuna esiste un altro modo di vedere le cose, un altro sentiero che è possibile percorrere quando i rapporti s’incrinano, gli interessi divergono. Si tratta della pratica collaborativa, una modalità di risolvere le controversie che ha avuto il suo esordio negli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta, ad opera di Stuart Webb, avvocato di Minneapolis e giunta in Italia attorno al 2010.

Il cuore della pratica collaborativa è una negoziazione centrata sugli interessi e sui bisogni delle parti che riconoscendosi e legittimandosi, divengono protagoniste di tutto il percorso. Come scrive l’avvocato Cecatiello, il metodo non contenzioso è “la via attraverso cui si riscopre la capacità di comunicare efficacemente e di individuare le soluzioni più vantaggiose, piuttosto che demandare a un giudice ogni decisione sul futuro”. In questo percorso, le parti sono affiancate da un team interdisciplinare di professionisti formati al procedimento collaborativo (avvocati, facilitatori della comunicazione, esperti finanziari) che li supportano nella fase di accordo: chi infatti è più competente nel risolvere le divergenze di una separazione se non gli stessi coniugi?

La lettura ha il pregio di esporre chiaramente e attraverso esempi concreti il cuore della pratica collaborativa e il suo cambiamento di paradigma rispetto allo schema classico. Se è vero che questo modello non può essere sempre adottato (come scrive Cecatiello “la pratica collaborativa non può essere utilizzata nel caso in cui una delle parti non si senta libera di decidere, stia subendo pressioni, sia sotto ricatto o tema gravi ripercussioni su di sé o sui figli minori”), è pur evidente che propone concretamente un approccio alle separazioni, ma in generale ai conflitti, fondato sulla trasparenza, sulla fiducia, sul riconoscimento dei reciproci bisogni e desideri. Propone una via che conduce a una società non già meno litigiosa, ma più responsabile, più giusta, più propensa a guardare al futuro che a perdersi in un crogiuolo di sentimenti nocivi, come la rabbia e il rancore. In alcuni Paesi la pratica collaborativa è stata estesa nell’ambito commerciale e nel settore del diritto del lavoro: i risultati sono stati eccellenti. Il messaggio è che possiamo trovare accordi convenienti, ma ancor più precisamente che è importante mantenere una buona relazione tra le parti anche dopo l’accordo.

L’approccio collaborativo ha infine il merito di farci riflettere sulla figura dell’avvocato e su che cosa ci aspettiamo quando ci rivolgiamo a lui. La lettura del libro ha rafforzato in me alcune convinzioni e mi ha sollecitato molte riflessioni. Un bravo avvocato deve certamente entrare quasi “in simbiosi” con il cliente raccogliendo ogni tipo d’informazione sul caso e rappresentando chi lo paga. Ma non essendo coinvolto in prima persona, distaccandosi da emozioni e passioni che spesso possono condurre a visioni distorte, un buon avvocato deve saper negoziare nell’interesse di una causa più grande che prevede la soddisfazione di tutti gli attori coinvolti. Un buon avvocato deve anche saper dire dei no capaci di far intraprendere strade più vantaggiose. Se ci pensiamo, la negoziazione è la strada attraverso cui persone con valori e interessi anche molto diversi devono percorrere per trovare soluzioni costruttive per vivere e lavorare insieme in gioia e serenità. E un buon avvocato deve essere capace di affiancare il cliente per fargli vedere la soluzione migliore, che è già presente nella situazione e va solo portata alla luce.

La credenza che un avvocato serva solo per litigare lasciamola al passato, al mondo che vogliamo lasciarci alle spalle. Diamo valore a questi professionisti, diamo valore alla nostra vita, al nostro tempo. Facciamoci aiutare quando siamo offuscati dalle tenebre del nostro cuore, scegliamo persone capaci di riportare la luce nella nostra vita. Professionisti che sanno essere guerrieri in un senso più vasto. Come diceva Toro Seduto Il guerriero non è chi combatte, perché nessuno ha il diritto di prendersi la vita di un altro. Il guerriero per noi è chi sacrifica sé stesso per il bene degli altri. È suo compito occuparsi degli anziani, degli indifesi, di chi non può provvedere a sé stesso e soprattutto dei bambini, il futuro dell’umanità”. Ecco, questo è un buon modo di intendere il mestiere di avvocato. Ricordiamocene quando lo cerchiamo, chiediamogli di trovare soluzioni vantaggiose, non di scatenare guerre nella maggior parte dei casi inutili. Chiediamogli di gestire i conflitti, non di alimentarli. I primi a rimetterci, in fondo, siamo noi stessi.

Simone De Clementi